L’altra faccia della medaglia.
Sono da sempre un sostenitore del bicchiere mezzo pieno, ma qui mi viene da puntare gli occhi su quello mezzo vuoto. Di questo quindi parlo, pur riconoscendo quanto scritto da Roberto e Daniele.
Alcuni rischi del lavoro da remoto sono indicati anche nella “Relazione Del Gruppo Di Studio Lavoro Agile”; dal punto di vista del lavoratore si sofferma in particolare sui temi relativi alla sicurezza sul lavoro, sulla determinazione e gestione dell’orario di lavoro, e vi è un passaggio a pag 12 che recita <<La “domiciliarizzazione” del lavoro agile è assunta come potenziale fonte di isolamento sociale e di esclusione dal tessuto relazionale che (…) caratterizza il lavoro in presenza. Le ricadute (in termini di possibilità di carriera, salute, discriminazioni, ecc.) sono evidenti (…)>>. Su questo mi soffermo, e rendo subito chiara la mia posizione: il rischio qui evidenziato come potenziale è a mio parere forte e pesante, e non è saldo zero ma identifica un (ulteriore) spostamento delle dinamiche del lavoro a tutto favore dell’impresa e contro il benessere e gli interessi dei lavoratori.
Allo spezzettamento NEL luogo di lavoro si aggiunge lo spezzettamento DEL luogo di lavoro.
Il primo processo è in atto da tempo. Operatori che “abitano” lo stesso luogo di lavoro, che ugualmente concorrono agli stessi risultati aziendali, non sono più compagni (termine pericolosissimo) di lavoro, ma neanche (più lievemente) colleghi. Non sono collegati perché hanno datori di lavoro diversi, diversi contratti, diversi diritti e tutele, diverse normative di riferimento, diversi trattamenti previdenziali. E non parlo qui di specialisti che lavorano per varie aziende, ma di lavoratori che operano in modo esclusivo in una specifica azienda: addetti alla mensa, alle pulizie, alla guardiania; ma abbiamo anche esternalizzazioni di interi reparti e funzioni quali la manutenzione ordinaria, la logistica, i magazzini. Se poi entriamo in ufficio o in un reparto di produzione e ci guardiamo in giro possiamo vedere un gruppo omogeneo di lavoratori che in realtà sono alcuni dipendenti dell’azienda, altri “in missione” (bellissimo termine) mandati da un’agenzia interinale, altri a partita iva, altri in stage, altri in progetto scuola-lavoro. Fra i dipendenti ci saranno contratti a tempo indeterminato e a tempo determinato, a tempo pieno e parziale, a chiamata, ecc.
Ebbene. L’interesse dell’azienda è uno solo. Gli interessi di tutti questi lavoratori non sono convergenti, e possono facilmente diventare conflittuali. Di conseguenza questi lavoratori non sono minimamente in grado di collegarsi (non sono colleghi!) per difendere collettivamente i propri interessi, proprio perché NON hanno gli stessi interessi – tanto meno si sentono compagni. Riprendendo linguaggi dimenticati, resi appositamente desueti, sono massa ma non classe.
Fra quelli che entrano dallo stesso cancello ogni mattina abbiamo comunque un gruppo di lavoratori che sono colleghi. Condividono il contratto, il datore di lavoro, i capi. Vanno nella stessa mensa e si incontrano alla stessa macchinetta del caffè. E si parlano. Si scambiano informazioni di quello che succede nelle diverse aree dove operano, e possono costruire una conoscenza allargata e comune dell’insieme dell’azienda. Magari non proprio una visione generale e globale, che rimane solo presso la direzione, ma certo più ampia di quella che si matura attaccati alla propria scrivania o alla plancia di comando di un singolo macchinario.
Il lavoro a distanza toglie la mensa, la macchinetta del caffè, l’entrare nell’ufficio del collega per scambiare qualche parola.
Il lavoro remoto diminuisce, se non annulla, la colleganza. [Remoto è dal latino remotus, participio passato di removere, quindi solo secondariamente significa “lontano” come aggettivo, perché primariamente significa “allontanato”, cioè portato lontano].
Il lavoro remoto allontana e toglie i corpi vivi con le loro voci naturali, i loro odori, i loro movimenti, i loro difetti. L’altro è solo la sua faccia, e la sua voce mediata negli orari prefissati di connessione web; la sua persona, come la mia, coincide definitivamente con il prodotto del suo lavoro.
I lavoratori non condividono più il posto (i posti si vivono, nei posti si vive, e se si è in tanti si con-dividono i posti e lì si con-vive) ma frequentano la stessa rete, cioè un non luogo.
Perdono senso espressioni come “il mio posto di lavoro”. L’aggettivo possessivo indica appartenenza, proprietà, con il carico affettivo ed emotivo che questo comporta. Se non ho il mio posto di lavoro, sono del tutto indifferente a ciò che accade vicino a me, perché non c’è nessun confine – che indica il limite ma anche la prossimità.
Risparmiamo km e (forse) tempo. Inquiniamo (un po’) meno. Spendiamo meno per “i vestiti da ufficio”. Ma è davvero tutto beneficio? Quanto costa, e costerà!, non avere più un posto di lavoro?
Siamo bravissimi in Italia ad inventarci parole-maschera utilizzando la nostra mediamente scarsa dimestichezza con l’inglese. Abbiamo il green pass – che nessuno straniero capisce cos’è, ma con green da noi diventa una cosa bella. E abbiamo lo smart working, anch’essa espressione sconosciuta all’estero, con quello smart che sa di intelligente, di brillante (e qualcuno confonde pure con lavoro sorridente, mischiando smart e smile). Altro che smart, it’s very sad.